Donato Moro – Galatina

Donato Moro – Galatina

DONATO MORO

Un galatinese di profonda fede religiosa e di solida formazione culturale

 

Questo articolo nasce principalmente dal proposito di richiamare alla memoria la complessa personalità e la produzione letteraria e filologica di uno dei più importanti ed apprezzati poeti del Salento. S’intende che mi riferisco a coloro che, come me, lo hanno conosciuto quando era ancora in vita, mentre ciò non è stato possibile ad altri per varie ragioni, anche di carattere anagrafico.

Tuttavia a questa mancanza penso che possa supplire “il filo di Aracne” con questa pubblicazione.

Cenni biografici

Donato Moro, nato a Galatina nel 1924, è scomparso nel 1997 nel pieno della sua attività. Nell’anno scolastico 1940-41 è stato mio compagno di studi nel Liceo Colonna, quando insegnava Letteratura

italiana Vittorio Bodini. E’ stato studente della Scuola normale superiore di Pisa, allievo di Luigi Russo. Negli anni ’50 ha insegnato insieme a me nel nostro Liceo. Ha collaborato all’assetto organico dell’Ateneo leccese. E’ stato ispettore tecnico centrale di italiano e storia. Ha al suo attivo numerosi articoli e saggi su autori e opere della nostra letteratura. Di particolare rilievo è la sua indagine filologica e storica con particolare insistenza sugli avvenimenti idruntini del 1480/81.

La produzione poetica

Nel 1993 ha pubblicato una raccolta di poesie intitolata “Segni nostri”, arricchita da una interessante prefazione di Oreste Macrì. Il titolo è estratto da una poesia dedicata all’amico pittore Nino Della Notte: “…tutti segni nascosti dietro tortuosi muri / tutti segni nostri / Noi li cerchiamo per crescer nei punti / per ritrovare il centro tra spine e rami secchi / per capire noi stessi a cui non basta / né l’acqua amara né amore

della madre”.

Salvatore Bello riprende il titolo nella poesia “A Donato Moro”, scritta in occasione della morte dell’amico carissimo, della quale trascrivo alcuni versi: “Giorni di nuvola e vento / ma oggi splende il sole tuo di Puglia / e t’accarezza il viso sbiancato / gli occhi spentisi fatta alba / “segni nostri” che ci macerano beatamente / e c’impastano la carne… / E questa luce che oggi inonda / non ti basta”.

Sono le voci, i rumori, i profumi, il respiro, la presenza umana della “terra madre” salentina di Salvatore Bello

“l’alma tellus” di Orazio che ci ha visto nascere e ci nutre come madre premurosa e benefica.

Riaffiorano “sul filo di ragno della memoria” (Montale), seguendo l’input della struggente nostalgia del poeta: quasi una sorta di straziante “recherche” proustiana di un tempo perduto, di un Eden inesorabilmente

scomparso. “Segni” gelosamente custoditi nella memoria e richiamati al presente, perché “solo un poeta (scrive Aldo Bello) può operare il miracolo di far ritornare indietro il tempo”.

Gli aspetti idillici e riposanti della campagna del Pascoli cedono il posto all’asprezza dell’agro salentino che l’autore esprime attraverso una ricercata durezza lessicale: “case corrose, bocche screpolate, tufi,ì erba secca, ruvidi grembi, lastre d’arenaria raggelate, lucertole assetate”. Penso che Donato Moro abbia voluto tradurre attraverso questo particolare linguaggio la durezza e la pesantezza di una fatica durata per secoli, sopportata con dolorosa rassegnazione dai “foresi”. Sono i braccianti, curvi sulla zappa da “sole a sole” dall’alba al tramonto: “arando arando mi mangiai lu pane, scendu e benendu mi trasiu lu sole”.

Sono i vendemmiatori, i trainieri, i cofinatori, le raccoglitrici di tabacco: figure cancellate ora dall’industria agricola ma richiamate alla memoria con un sentimento che Lucio Romano definisce “pietas”, cioè l’amore per la nostra terra, per i nostri cari.

Questo sentimento si respira in tutta la produzione poetica di Donato Moro, in particolar modo nella poesia intitolata “Braccianti”, che sento il bisogno di trascrivere integralmente:

Su piazze lastricate di vento

Vidi uomini muti nella sera

Compagni nell’attesa

Gli sperduti fanali

Il fiato secco della tramontana

Giungeva tranquillo il fattore

A sferza calava il suo prezzo

Su mani contratte in offerta

Ed era gente forte per un pane

Cristo senza parola sotto il gelo

Per quanto riguarda gli aspetti tecnici e formali della poesia di Donato Moro, bisogna dire che al nostro autore va riconosciuto un sicuro possesso dei ferri del mestiere, mutuato anche da una profonda conoscenza dell’ermetismo.

Mi riferisco all’uso libero della rima e della punteggiatura, al frequente ricorso alle assonanze, alle allitterazioni, alle sinestesie.

Considerazioni finali

Questo mio vivo interesse per la poesia dell’amico Donato mi induce ad una particolare conclusione.

Non credo di dire qualcosa d’insensato se dalle pagine di questo periodico sento il bisogno di rivolgere ai dirigenti e ai docenti degli istituti d’istruzione secondaria superiore della nostra città un invito a proporre ai ragazzi, che si accingono a studiare la letteratura italiana del Novecento, una lettura antologica in classe dei nostri poeti salentini perché, per esempio, sappiano almeno che, diversamente dal “male di vivere” di Montale, di natura esistenziale, si è stabilizzata nella nostra terra per un lungo periodo di secoli, sino ai primi anni della seconda metà del Novecento, un’insostenibile condizione di emarginazione, sfruttamento, miseria e sofferenza, patita dal ceto contadino, provocata da un’anacronistica struttura sociale di stampo feudale.

Ai nostri Donato Moro, Lucio Romano e Salvatore Bello va riconosciuto il merito di aver “denunciato”, sia pure con tonalità diverse, questa condizione attraverso l’onestà e l’innocenza della poesia.

di Salvatore D’Errico

da “Il Filo di Aracne”

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