MARTINEZ (Martines), Gaetano. – Nacque a Galatina (Lecce) il 14 nov. 1892 da Vito e da Rosa Ripa. Il suo cognome, con cui fu registrato all’anagrafe, era Martines, e fu cambiato da lui stesso in Martinez forse per ricordare le origini spagnole della famiglia. Autodidatta – non conseguì neppure la licenza elementare – iniziò a lavorare con il padre che, come capomastro muratore, gestiva una piccola impresa edile. Formatosi come scalpellino, trascorse gli anni della sua giovinezza tra semplici operai di provincia, frequentando solo per qualche anno la Scuola d’arte e mestieri di Galatina. Il M. iniziò dunque a scolpire rilievi, lapidi funerarie e decori architettonici nei quali si riscontra una singolare esuberanza decorativa, in seguito a lui estranea, che testimonia l’affannosa ricerca di fonti di ispirazione, il desiderio di aggiornarsi e di sprovincializzarsi. Aspirando a entrare in contatto con un ambiente artisticamente vivace e più aggiornato rispetto a quello della sua città, amareggiato per le incomprensioni dei suoi concittadini (Come scrittori, musicisti e artisti vedono sé stessi e i loro critici, in Il Lavoro fascista, 19 febbr. 1931) in occasione dell’Esposizione internazionale del 1911 si recò a Roma, dove però rimase solo due anni. Respinto dalle scuole d’arte e botteghe romane per non aver conseguito la licenza elementare e bocciato agli esami di ammissione al Regio Museo artistico, privo di mezzi di sussistenza, il M. dovette far ritorno a Galatina, dove si chiuse in se stesso, prestando di tanto in tanto la sua opera di intagliatore per il padre. Forte però degli stimoli avuti negli anni romani, sul finire del 1914 eseguì un nudo a grandezza naturale – poi distrutto, come fece molte altre volte, mostrandosene insoddisfatto – scegliendo a modello il fratello Pasquale. Subito dopo, nel 1915, elaborò un altro nudo che intitolò Il dolore umano. Conservato al Museo civico P. Cavoti di Galatina, raffigura un uomo seduto (ora mutilo del braccio e della gamba sinistra) con la testa appoggiata languidamente su un masso; vi si scorge chiaramente l’influenza del simbolismo decadente di L. Bistolfi. Nel 1916 fu chiamato al fronte. In quel periodo il M. si limitò a disegnare: molti furono i disegni con scene militari, caratterizzati da notevole resa chiaroscurale e spazio prospettico (molti dei disegni citati qui e nel corso della voce sono conservati al Museo di Galatina). Durante la guerra perse il fratello Carlo. Riformato per malattia dopo otto mesi di guerra, il M. tornò a Galatina e riprese a eseguire accanto al padre ornamentazioni per fabbricati e allo stesso tempo a modellare per suo conto dal vero. Cominciò a realizzare piccole sculture servendosi di ragazzi di strada, contadini e compaesane colti in atteggiamenti quotidiani, mostrando qualità di acuto osservatore. Per scarsezza di mezzi, gli anni di provincia furono quelli maggiormente dedicati al disegno. Ritraendo a memoria, riempì fogli su fogli con immagini di persone che inconsapevolmente posavano per lui, dimostrandosi ritrattista raffinato (nella piena maturità arrivò a manifestarsi pure poeta sensibile). Negli anni di formazione furono molteplici i punti di contatto con molti dei protagonisti della scultura artistica, italiana e non, della prima metà del secolo: interpretò A. Rodin e Medardo Rosso, come appare nel Wagner del 1918 (proprietà di Rita Martines). Alla Mostra degli artisti pugliesi a Bari del 1917 espose alcuni disegni e Il sogno del piccolo giocatore (proprietà di Rosa Alba Martines), in cui espresse il suo approccio al mondo dell’infanzia e degli umili. La scultura, che si accostava allo stile del leccese R. Giurgola, rappresentò una tappa rilevante nel percorso stilistico del M., contrassegnato da inclinazioni naturalistiche. Con la partecipazione alla Promotrice di Napoli, nel 1920 entrò in contatto con la scuola naturalistica napoletana di V. Gemito, A. D’Orsi, F. Cifariello al cui gusto archeologico e neocinquecentesco si erano già accostate opere come Il filosofo del 1917 (Galatina, Museo civico), distinto da vigorosa impronta michelangiolesca. La meta agognata restava comunque Roma, dove il M. si trasferì pieno di speranze nel marzo del 1922, e dove gli venne subito offerta la possibilità di farsi conoscere, partecipando alla Mostra del ritratto organizzata dall’Associazione artistica di via Margutta. La prima opera eseguita nella capitale, modellata con grande slancio in pochi giorni, fu il Caino, del Museo civico di Galatina, esposto alla I Mostra d’arte pugliese nel 1924. La scultura, distinta da un michelangiolismo alla Rodin e da un marcato primitivismo che accentua le caratteristiche fisiche deformandole, era legata alle problematiche decadenti d’inizio secolo, caratterizzate dall’emergere di tematiche come «colpa» e «rimorso», già affrontate dal M. nei nudi del 1914-15. Successivamente nel 1925 modellò Il vinto (Bari, Pinacoteca provinciale) esposto alla III Biennale di Roma, con il quale ebbe la possibilità di farsi conoscere a livello nazionale e che gli valse l’elogio della commissione esaminatrice e quello di F. De Pisis (F. Tibertelli); nell’opera confluirono apporti di natura diversissima, dall’arte greca e romana all’opera di A. Wildt. Pur essendo isolato nell’ambito dell’arte di regime (il suo carattere fiero gli impedì di entrare in quell’ambiente e aderì solo formalmente al Sindacato fascista delle belle arti), il M. raccolse diversi riconoscimenti: nel 1926 terminò la sua prima opera pubblica, Le Virtù cardinali, collocata sull’attico del palazzo dell’Istituto Nazionale Assicurazioni di Roma (INA), prima espressione di una certa monumentalità cui egli indulse per breve tempo e in modo episodico, come è ben visibile nel Pilota e nel Mastro d’ascia del palazzo delle Finanze di Bari, realizzati intorno al 1934, e nell’Allegoria della fertilità del 1938, posta all’esterno del palazzo INA di Lecce. Dal 1928 partecipò alle più importanti mostre nazionali: intervenne con successo alla Biennale di Venezia (dove fu presente con qualche interruzione dal 1928 al 1950) esponendo la Lampada senza luce, statua in gesso che, caratterizzata da modi michelangioleschi letti in chiave imponente e decorativa, fu fusa in bronzo diventando nel 1936 fontana monumentale di Galatina in piazza Alighieri, accolta da molteplici critiche. Nel 1934 sposò Amelia Testa, già sua modella. La figura femminile fu ricorrente in tutta la sua opera. Nel M. convissero due linee divergenti. La prima, tendente alla stilizzazione e all’eleganza lineare déco, è rappresentata, per esempio, dal casto nudo di fanciulla, Ignara mali, del Genio civile di Lecce, presentato alla I Mostra del Sindacato laziale fascista del 1929, dove, nella compostezza classica e nell’agevole grazia, resa nella struttura piramidale di impronta quasi purista, il M. raggiunse la padronanza perfetta della materia e del proprio mondo creativo, superando i modi michelangioleschi giovanili e lo stile decorativo del periodo secessionista. La seconda è caratterizzata da un più rude arcaismo, in linea con le terrecotte coeve di A. Martini, come dimostra la Donna seduta del 1928 (Lecce, Museo provinciale): una donna del popolo, assorta e muta, idolo laico di una orgogliosa civiltà contadina. Verso la metà degli anni Trenta, sulla scia delle coeve ricerche di Martini e M. Marini, passando attraverso il tema del «nudo virile» che lo portò a sviluppare il tipo dell’atleta colto nel momento della tensione agonistica, egli giunse alle soglie dell’astrazione attraverso una esasperata schematizzazione anatomica e gestuale, di un primitivismo d’impronta neoegizia, con riferimento a M. Sironi, che conferì alle sue sculture una certa durezza e fissità di movenze, come in Discordia di amanti e nel Giocoliere del 1935, successivamente distrutti. Alla fine del decennio, gli furono conferiti alcuni premi, tra cui quello per Nudo virile del 1932 (proprietà di Mariapia Martines) alla Quadriennale del 1939; e nel 1940 ottenne la cattedra di plastica nella scuola professionale di Civita Castellana. Nelle sculture esposte nella sala personale del 1942 alla Biennale veneziana si manifestò in maniera decisa e più significativa la svolta anticlassica, sia con esili figure fragili e stralunate – come Donna che si spoglia, la Danzatrice, Donna che si asciuga i capelli del 1941 (la prima di ubicazione ignota, le altre di proprietà di Rosa Alba Martines) e il Pierrot del 1938 circa (Roma, Galleria comunale d’arte moderna e contemporanea), in cui la tristezza dell’espressione contrasta con l’abbigliamento di scena – e sia con quelle immagini salde, imponenti, dove l’arcaismo apparso in precedenza si tradusse in ferma compattezza volumetrica e fissità dei volti, come in La padrona di casa del 1941 (Matino, Banca popolare pugliese), ritratta seduta, in un momento di riposo dalle sue faccende quotidiane. Negli ultimi anni, nelle sculture femminili il M. recuperò una figura archetipica, un’immagine mediterranea e ancestrale di Grande Madre, attraverso una forma salda e compatta, ma armonica ed equilibrata. L’esigenza del M. nella piena maturità, libero dalla preoccupazione di accontentare la committenza, disponendosi a rivelare gli aspetti più intimi della propria natura, fu quella di raccontare il mondo delle sue origini, mettendo in scena, in altorilievi esposti per la prima volta nel 1950 alla galleria del Secolo di Roma, momenti di vita paesana e contadina con una vena popolaresca, ora ironica, ora drammatica come La modella del 1945 e Ritorno al lavoro (Vita campestre) del 1950, entrambi proprietà di Rosa Alba Martines, fino a prefigurare la sua stessa morte in Deposizione del 1951 (Lecce, Istituto d’arte G. Pellegrino). Il M. morì a Roma il 1° ott. 1951 lasciando interrotta l’ultima fatica, L’offerta ad Esculapio (ubicazione ignota).
(Fonte: C. de Angelis – Treccani on line)